Jacopo Treves e il dibattito sul Radioteatro

La R.A.I. inizierà la sera del 19 marzo una serie di trasmissioni con lo scopo di portare a conoscenza dell’ascoltatore italiano le maggiori opere internazionali concepite radiofonicamente. Il Manifesto è un’iniziativa che non si limiterà a presentare opere di autori che hanno già avuto largo consenso all’estero, ma soprattutto intende suscitare anche in Italia interesse e collaborazione verso un autentico stile radiofonico e chiarire i suoi rapporti con la letteratura drammatica, narrativa e poetica antecedente e seguente l’invenzione della radio. Il Manifesto intende dimostrare la soluzione radiofonica dei problemi e dei metodi espressivi enunciati dai manifesti dell’espressionismo e del surrealismo che informano l’odierna letteratura e l’arte contemporanea. La Radio non ha che due possibilità: ritrasmettere passivamente generi d’arte o d’informazione che perdono attraverso il microfono le loro qualità espressive (ossia trasmettere un teatro cieco e privo del consenso della platea e diffondere notizie e cronache secondo lo stile del giornale stampato), oppure far proprie le secolari esperienze di tutte le forme d’arte a lei preesistenti secondo concezioni e realizzazioni che ne sfruttino le infinite e inesplorate capacità di suggestione e di popolarità“.
Si tratta dell’ incipit di un lungo articolo-saggio intitolato Il Manifesto della Radio-Poesia, pubblicato il 16 marzo 1947 nell’ultimo numero del  “Radiocorriere” edizione Centro-Sud, e attribuito unanimemente da tutti gli storici a Jacopo Treves, ritratto accanto all’articolo in una fotografia con Norman Corwin. Lo stesso Treves firma la regia di “Avvisi matrimoniali” dell’inglese Tyrone Guthrie, prima trasmissione del ciclo, andata in onda appunto il 19 marzo 1947 alle 21.15 –  Rete Rossa.
Fin dalle prime righe del suo Manifesto, Treves riprende sostanzialmente i temi centrali intorno ai quali, fin dalla nascita della radio, si è sviluppato in tutta l’Europa il dibattito sul teatro radiofonico come ‘teatro alla radio’, fatto di adattamenti di opere teatrali e trasposizioni di opere letterarie, e come ‘teatro per la radio’, concepito e scritto, cioè, appositamente e esclusivamente per il mezzo radiofonico.
Conobbi Treves prima di entrare a Radio Firenze, nell’ambiente fiorentino dei giovani intellettuali. Lo ricordo intelligente, colto e pieno di sé. Il suo vero nome Gino, gli sembrava troppo banale per uno che avesse aspirazioni romantiche e poetiche, così adottò quello di Jacopo” –  ricorda Umberto Benedetto, regista, che fece con Treves i primi passi a Radio Firenze nel 1945.
Rispetto a paesi come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania, ove l’arte radiofonica nasce con la radio stessa e si trasmettono regolarmente radiodrammi fin dai primi anni ’20, in Italia il radioteatro fece la sua comparsa solo il 6 ottobre 1929, cinque anni dopo l’entrata in funzione del servizio radiofonico, come ricorda Paolo Vales nel suo saggio Evoluzione della radiodrammaturgia italiana, pubblicato dalla rivista “Radiodramma” nel numero 7-8 del maggio 1950: “…dalle antenne di Radio Torino e Milano si propagò per l’etere la prima radiocommedia italiana, testo scritto espressamente per il tipico mezzo radiofonico. Essa aveva per titolo L’anello di Teodosio ed era stata composta da Luigi Chiarelli. Non ne fu un capolavoro e neppure un testo esemplare. Altri dopo di lui, seguendo lo slogan (che poi riprese Arnheim) “La radio cerca la sua forma”, si accontentarono di tentativi e di ricerche non molto impegnativi (…) Periodo ‘rumoristico’ è chiamato questo; periodo in verità che non fece approdare a nulla di concreto e restò un dilettantesco e confuso ‘assaggiò del microfono’.”
Nel periodo a cavallo degli anni ‘30 autori, come Lucio d’Ambra, Alberto Donaudy, Piero Mazzolotti, Gino Rocca, Alessandro De Stefani, Gigi Michelotti, Landro Ambrosini e molti altri, invitati espressamente dall’ E.I.A.R. a dedicarsi anche alla radio, si mostrarono poco sensibili, al pari di Chiarelli, alle problematiche estetiche e espressive richieste dal mezzo radiofonico. Tuttavia già nel 1928 due articoli di Umberto Bernasconi, il primo pubblicato il 25 aprile in “Il Popolo toscano” e il secondo il 28 giugno in “L’Impero d’Italia” testimoniano (stando alla citazione di Enrico Rocca a pag. 226 del suo Panorama dell’Arte radiofonica, pubblicato da Bompiani nel 1938) un’attenzione e un interesse già maturi rispetto al dibattito di natura estetica e espressiva sul teatro radiofonico e in particolare alle teorie di Paul Deharme, discepolo di Gabriel Germinet, il padre del radiodramma francese, che appunto nel 1928 propone le sue dodici regole per liberare il radioteatro dal realismo imperante.
Tre articoli di Arnaldo Ginna, L’Arte della Radiofonia, pubblicato il 23 gennaio 1930 su “l’Impero d’Italia, L’Arte nel Radiodramma, pubblicato in “Oggi e domani” n. 3, 1930 e Variazioni sul Radiodramma, sempre in “Oggi e domani”, n. 4, 1930, anticipano quello che può considerarsi il primo vero manifesto italiano dell’arte radiofonica La radio come forza creatrice di Enzo Ferrieri, pubblicato sul numero del 25 giugno 1931 della rivista “Il Convegno”, diretta dallo stesso Ferrieri  all’epoca anche direttore artistico dell’E.I.A.R., nel quale l’autore, come evidenzia Vales (“Radiodramma”, op.cit.) “enuncia, sulla base di precedenti studi francesi, la validità espressiva della radio, difendendo in essa anche il teatro presentato al microfono, non solo il radioteatro e insorge giustamente contro il ‘rumorismo’ ancora imperante e mette in rilievo quei valori che risiedono nell’immutabile forza della parola, ma non esempifica il concetto se non con marginali osservazioni tecniche proprie alla regia più che all’estetica.”
Sempre “Il Convegno” pubblica nel n. 8, agosto 1931, una Inchiesta sulla radio, a cura di Enzo Ferrieri, una raccolta di opinioni sollecitate personalmente dal curatore a un gran numero di uomini di cultura italiani. Rispondono M. Bontempelli, A.G. Bragaglia, P. Buzzi, R. Calsini, A. Carocci, Alberto Casella, Alfredo Casella, E. Cecchi, G. Cesari, G.M. Ciampelli, E. Colorni, E. Conti, L. D’Ambra, S. D’Amico, G. Ferrata, M. Ferrigni, P. Gadda, A. Gerbi, C. Linati, A. Lualdi, F. Malipiero, E, Margadonna, F.T. Marinetti, G. Morpurgo Tagliabue, V. Mortari, U. Notari, G. Piovene, O. Respighi, M. Robertazzi, G. Rocca, N. Savarese, G. Saviotti, A. Toni, g. Tumiati. Secondo lo stesso Ferrieri il dato più importante che emerge da questa inchiesta è l’insperato interesse del mondo culturale italiano per il mondo radiofonico, nonostante lo scetticismo di numerosi interventi.
La cultura ufficiale italiana, tuttavia, a differenza di quella europea, mantiene per tutti gli anni ’30 un atteggiamento di studiato disinteresse per la produzione radiodrammatica, considerata ora come un semplice surrogato del teatro ora come una manifestazione di giovanile avanguardia, e non risponde adeguatamente alle sollecitazioni e alle iniziative intraprese dall’ E.I.A.R. anche attraverso numerosi concorsi per radiodrammi.
La radio, il suo linguaggio e la sua arte destano, al contrario, l’interesse di un gruppo di giovani, sconosciuti all’ambiente teatrale, attirati dalle possibilità espressive del mezzo e desiderosi di occupare un terreno incolto, certamente carichi di energie innovative, ma scarsamente dotati sul piano della elaborazione teorica e estetica. Le teorie dello stesso Manifesto Futurista della Radia di Filippo Tommaso Marinetti, scritto in collaborazione con il poeta Pino Masnata e pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino il 22 settembre 1933, “la Radia non deve essere teatro, cinematografo, libro. La parola è andata sviluppandosi come collaboratrice della mimica facciale e del gesto. Scomparendo nella Radia questa collaborazione, occorre che la parola sia ricaricata in tutta la sua potenza“, ebbe a suo tempo una risonanza piuttosto limitata e i radiodrammi a esse ispirati un seguito poco convincente.
Verso la seconda metà degli anni ’30, comunque, anche la produzione radiofonica italiana è percorsa dai fermenti innovatori di alcuni “giovani sperimentatori”, tra i quali Paolo Vales (“Radiodramma, op. cit.) ricorda, primi fra molti altri, Renato Castellani e Livio Castiglioni, inventori del ‘suonomontaggio’: “ la Radio Italiana è investita da una vivificatrice ventata di sperimentalismo, nascono i piani sonori, i sottofondi, il missaggio, la risonanza, il fonomontaggio, non usati come ripieghi esteriori, ma come mezzi veramente espressivi, inediti e funzionali. Siamo nel 1934 e la via è aperta non solo ad una più provveduta e ambiziosa regia radiofonica dal punto di vista tecnico, ma anche ad una certa quale poetica che non tarderà a dare i suoi frutti, essendo mosse le acque e acuito l’interesse dei giovani.”
Anche il dibattito teorico prosegue, quasi fino allo scoppio della seconda guerra mondiale: nel 1934 sulla rivista “Il Dramma”, anno Xo, n. 198, Massimo Bontempelli con il saggio Radioteatro, pur mettendo in guardia gli autori radiodrammatici dalla tentazione del realismo ammette l’efficacia delle tecniche naturaliste; nel 1937 Ismaele Barulli Ed., Osimo, pubblica Sottopalco, saggi sul teatro, di Anton Giulio Bragaglia, in cui l’autore esprime la sua fiducia nelle possibilità future del radioteatro, ne accetta i valori letterari, ammette l’esistenza di un problema estetico, ma gli nega ogni validità spettacolare (lo definisce ironicamente ‘auditicolo’ ossia ‘spettacolo uditivo’). Non è teatro, dunque, ma ‘spettacolo da catacombe’, sotterraneo, fatto per vivere soltanto nell’animo dell’ascoltatore; infine, nel 1938 esce presso Bompiani l’opera già citata di Enrico Rocca, Panorama dell’arte radiofonica, (è di un anno prima, nel 1937, la pubblicazione presso l’editore Hoepli del saggio di Rudolph Arnheim La radio cerca la sua forma) senza dubbio un testo ancora oggi fondamentale, sia dal punto di vista della sua impostazione teorica che da quello della vasta documentazione, italiana e straniera, per lo studio del fenomeno radiodrammatico. La radio, secondo l’autore, è un nuovo mezzo di comunicazione e di espressione artistica, fondato unicamente sulle capacità recettive e interpretative dell’udito e ha come scopo ultimo quello di suscitare, in chi ascolta, la ‘vista auditiva’, ossia la possibilità di vedere attraverso l’intelletto e la fantasia. Come ogni arte trova nel suo limite una ragione di vita così anche la radio, costretta nella sua compiutezza acustica, può esprimere e suscitare realtà artistiche; essa sarà arte, però, soltanto quando ubbidirà contemporaneamente alle leggi dell’estetica e della tecnica. Tutte le forme, a partire dalla conversazione radiofonica fino alla radiosintesi, si evolvono verso il radioteatro come al genere principe; esso deriva a sua volta, per un processo di invisibile simbiosi, dal teatro scenico; il compromesso tra le due forme è possibile ma, mentre il teatro tradizionale è sintesi analitica, il dramma radiofonico è analisi sintetica.
Con la fine della guerra anche la radio italiana conosce un radicale mutamento, nella forma e nella sostanza; accentua il suo ruolo di promozione culturale; cerca nuove forme espressive e nuovi linguaggi. La vecchia E.I.A.R. si dissolve a partire dal 1943, con il progredire del fronte bellico lungo la penisola, nelle cosiddette ‘Radio Libere’: Radio Cagliari, Radio Catania, Radio Palermo, Radio Bari, Radio Napoli e, salendo sempre più a nord, Radio Firenze (Paolo Vales in “Radiodramma” –op. cit.-  definisce “vivai sperimentali” queste isole trasmittenti, che consentirono a moltissimi giovani, sull’esempio delle trasmissioni americane e inglesi, di cominciare di nuovo a “fare la radio”) e subito dopo la R.A.I. opera la riunificazione, ricostruisce la “rete”, fa nascere il nuovo servizio pubblico nazionale.
Iacopo Treves, meteora nel mondo della prosa radiofonica, è probabilmente uno dei frutti di questi “vivai sperimentali”.
Clara Grementieri, andata in pensione quando era Funzionario alla prosa, alla sede Rai di Firenze, ricorda: “Nel 1944 incontravo Jacopo, nella discoteca, che ascoltava la musica per i suoi lavori. Quello che sicuramente per me fu un capolavoro, fu ‘Tamburi lontani’ per la cui sonorizzazione mi fece cercare canti spirituali che fossero senza sottofondo musicale. Poi venne noleggiato un tamburo e un orchestrale venne apposta dal Teatro Comunale per suonarlo. C’era anche un direttore del tamburo che dirigeva l’orchestrale.

Aldo Manetti, tecnico del suono di quel periodo: “Treves esigeva dagli attori che imparassero a memoria la parte, come a teatro. Diceva che così l’attore avrebbe partecipato con maggior entusiasmo perché non avendo  problemi di lettura del copione, avrebbe potuto muovere la testa che per lui era molto importante. ”
Franco Malatini: “Se una certa aneddottica ce lo mostra stravagante ricercatore di effetti registici, con sistemi non ortodossi (come il far parlare l’attore in posizione supina, gravato di due o tre dizionari posti a compressione dello stomaco), è generalmente accettato il positivo giudizio sulla sua intelligenza, il suo estro, la sua tenacia, potremmo dire caparbietà, nei tentativi di ottenere dagli attori e dalle attrezzature ogni possibile sfumatura espressiva“.
Dopo la messa in onda di “Casa di bambola”, il 7 agosto 1945, Treves scrive una lettera al Direttore della sede Rai di Firenze, Aldo Angelini, per sottolineare l’alta professionalità degli attori e dei tecnici “in occasione della più lunga trasmissione di prosa di Radio Firenze, (21,15 – 23,40) per celebrare Ibsen, prima edizione integrale italiana dal norvegese del dramma in tre atti “. Per la stessa trasmissione, viene stranamente archiviata anche una lettera di protesta di un ascoltatore, sempre indirizzata al Direttore: “Povero Ibsen! Una recitazione monotona, sbagliata, indecorosa, che ha reso intollerabile l’ascolto sino in fondo alla maggior parte degli ascoltatori. Quando vi deciderete, a Radio Firenze, con una direzione artistica dell’Ufficio Prosa che sappia il fatto suo e non sia composta invece di gente improvvisata e messa lì senza sapere da che parte si comincia per mettere insieme uno spettacolo.”
Umberto Benedetto, divenuto poi responsabile della Compagnia di Prosa di Firenze,: “Nel mio compito di regista sono sempre stato per una Radio che dovesse diffondere la cultura, ero per l’immediatezza della comprensione della cultura e non per una radio che avesse una ricerca stilistica tale da far comprendere il suo messaggio dopo 6 mesi. Per Treves invece il teatro radiofonico doveva avere una funzione didattica, educativa“.
Mentre Jacopo Treves ‘firma’ le sue regie per Radio Firenze, il dibattito sul Radioteatro, dalle pagine del Radiocorriere, continua.
Jader Jacobelli, Undicesima Musa? (Radiocorriere, n. 1, 1945) Si tratta dell’intervento di apertura della “disputa” sul teatro radiofonico: ” La Radio ha posto la sua candidatura all’empireo artistico e gli oppositori avranno ragione fintanto che non si troverà il ‘puro radiofonico’. Agli ascoltatori, comunque, è rimesso il giudizio definitivo.”
Aldo Airoldi, L’undicesima Musa vivrà nel fonomontaggio (Radiocorriere, n. 2, 1945). In risposta all’articolo di Jacobelli, il genere più specificamente radiofonico, secondo l’autore, è il ‘fonomontaggio’ che, nascendo da un approfondimento del nuovo linguaggio, è il solo in grado di sviluppare ritmi estetici suoi propri.
Vincenzo Talarico, Battaglia per il Radioteatro (Radiocorriere n. 3, 1945): “Il teatro normale sollecita e si giova, in genere, d’esperienze e di emozioni collettive trasmettibili dall’uno all’altro spettatore fino a creare un tono e un’atmosfera; al contrario, il teatro radiofonico è il teatro per un solo spettatore; tiene più del libro che dello spettacolo; ma è spettacolo ugualmente, tutto sommato. Perché le parole si traducano si traducano in ‘immagini visive’ è necessario l’intervento del montaggio, cioè dello stile radiofonico.”
Franco Malatini, Puntare sul Radioteatro (Radiocorriere, n. 3. 1945): “Il Radioteatro è l’unica forma di spettacolo che può, grazie a un fertile uso della voce (viene proposta una classificazione delle variazioni vocali possibili) mettere in risalto l’essenzialità della parola. L’intervento del montaggio è determinante nel momento in cui rende possibile la fusione tra ritmo e progressione mantenendo uniti i vari momenti narrativi.”
Massimo Bontempelli, Radioteatro? No, non ci credo (Radiocorriere n. 5, 1945): “Il teatro, lo spettacolo, ha creato quella entità particolarissima che chiamiamo ‘il pubblicò. Poi viene la Radio, e fa il cammino contrario. Riduce lo spettacolo alla sola sua parte auditiva, e il pubblico lo smembra, lo rimanda,, tutti, i suoi componenti uno per uno, ciascuno alla sua solitudine. In definitiva, l’uomo davanti alla radio non differisce molto dall’uomo col libro in mano. Tra l’ascoltare un dramma alla radio e ascoltarlo da un lettore, la sola differenza sta nella diversità delle voci. Così il radiodramma non è che un dramma udito leggere alla radio. Qualcuno mi obietta che non è udito-leggere ma udito-recitare. Io ripeto insistendo che è udito-leggere.”
Franco Malatini, Non sarà teatro ma può essere arte (Radiocorriere n. 6, 1945): “…Ciò che più importa è accettare l’esistenza di un fenomeno “radio” accanto ad altri fenomeni che si chiamano cinematografo, teatro, romanzo ecc. Ciò che più importa è che si dia all’ascoltatore, attraverso la successione di suoni, rumori, parole, silenzi, un’emozione estetica compiuta tale, quale un film, una commedia, un romanzo o una qualsiasi creazione artistica possono dare, valendosi ciascuna forma dei propri mezzi espressivi.”
Eugenio Galvano (Radiocorriere n. 2, 1946): “Il pubblico desidera che alla fine esca dall’officina qualcosa che valga e che lo soddisfaccia. Veramente continuare a discutere diventa un pò meno necessario. Ciò che è bello sul palcoscenico, a patto di non diventare oscuro e confuso al microfono, cioè a patto di essere adattato come si deve, è bello anche alla radio.”
Camillo Boscia, Radioteatro (Radiocorriere, n. 1, 1947, prima parte e Radiocorriere, n. 5, 1947, seconda parte). Il teatro radiofonico, secondo l’autore, non esiste, è come l’araba fenice; l’iniziale frenesia, l’ardimento e l’entusiasmo che animavano i primi esperimenti – ai quali anch’egli aveva partecipato – fecero perdere ogni senso della misura. Secondo Boscia “il radioteatro, come fatto artistico autonomo, non ha passato, ossia non ha avuto nessuna formulazione geniale, ma non può sperare nemmeno nel futuro: la televisione annullerà ogni sforzo.”
Arriviamo così a marzo del 1947, al n. 11 del Radiocorriere, l’ultimo, come abbiamo visto, prima della riunificazione dell’edizione del Centro-Sud con quella del Nord, dove appare il Manifesto della Radio-Poesia di Jacopo Treves, da cui siamo partiti, che radicalizza il dibattito e la polemica in corso, fino a identificare l’espressione radiofonica con quella surrealista ispirata dal Manifesto di Breton, sostenendo tra l’altro che “la radio per i suoi stessi mezzi di espressione può trovare la sua forma più compiuta in uno stile proprio basato sulla valorizzazione poetica del linguaggio esclusivamente auditivo che è stato nello stesso tempo il suo limite e la sua forza. Si tratta di una verifica di valori che sono fuori da ogni accorgimento tecnico, utilizzato come forma di compenso. Tali valori emergono solo nei lineamenti di uno stile poetico ed approfondire il campo acustico è indispensabile per evitare che la televisione rinnovi per l’arte radiofonica le limitazioni e gli errori che sono avvenuti nell’arte cinematografica con la conquista del parlato.”
Treves ‘firmerà’ la prima delle trasmissioni annunciate dal Manifesto, “Avvisi matrimoniali” di Tyrone Guthrie andata in onda il 19 marzo 1947. Sempre dal Radiocorriere, l’ultima traccia delle sue ‘regie’  è “I fiori non devi coglierli” di Tyrone Guthrie andato in onda il 23 maggio 1947.
Il 20 maggio 1946  Treves era stato trasferito alla Rai di Roma. Giuseppe Patroni Griffi, regista teatrale e cinematografico, è l’unica testimonianza del difficile “periodo romano” di Treves. I suoi sono ricordi frammentati, confusi, severi: “Era un uomo molto intelligente, fissato, faticosissimo, insopportabile. Quando arrivava lui, noi scappavamo. In quegli anni  mi occupavo della Prosa Rai; lui veniva, proponeva dei lavori, poi spariva. Pensavo che fosse un collaboratore esterno. Era pazzo di Tyrone Guthrie.” E a proposito della sua tragica fine: “Era destinato a una ‘non vita’.”
Ede Castoldi racconta gli anni successivi: “Fra il 1952 e il 1955 frequentavo quasi settimanalmente la Galleria Numero in Via degli Artisti all’altezza della piazzetta Conti. Era un ambiente incredibile, nel quale ci si riuniva con gli amici, si guardava i quadri e si parlava. Quello che mi sono portata dietro tutti questi anni è sempre stata la visione, quando li incontravo nella Galleria, di Fiamma Vigo e Jacopo Treves. Lui era alto, Fiamma più bassa. Lei così fragile, così piccola. In un certo senso poteva sembrare che lui proteggesse lei, viceversa mi hanno sempre dato l’idea che Fiamma proteggesse lui o cercasse di proteggerlo. C’era un che di materno, di molto femminile nel suo modo di guardarlo“.
Francesca Minnellono (pittrice e scultrice) era un’altra frequentatrice di ‘Numero’: “Eravamo  un gruppo che si interessava di letteratura e frequentava la Galleria. Jacopo era una persona molto particolare aveva delle frecciate incredibili, parlava per ore poi, improvvisamente, si ammutoliva, lasciava il gruppo e se ne andava. Una volta raccontò che lui e un suo amico, di sera, al mare, erano soliti scavare due fosse dentro le quali rimanevano sdraiati a conversare. Fiamma era una donna che stimava, e lei  aveva di lui la medesima considerazione. Pur non condividendo una convivenza, erano sempre insieme“.
Silvio Loffredo, pittore: “Quando Treves veniva dalla Fiamma era il personaggio di punta, portava sempre un po’ di pepe alla conversazione. Le sue conversazioni erano sempre intelligenti, parlava di Kafka, era difficile tenergli testa. Negli ultimi tempi lo vedevo sempre eccitato. Un giorno lo incontrai e lo salutai un po’ frettolosamente. Jacopo mi rimproverò: ‘che fai, fuggi?’. Dopo qualche giorno seppi che si era suicidato e porto sempre con me l’angoscia di quel saluto frettoloso“.
La sua produzione radiofonica, pur in un tempo così breve,  è abbastanza intensa. In meno di due anni (1945 – 1947) sono stati individuati, dalle pagine del Radiocorriere, ventitrè lavori che portano la sua “firma”; diresse testi di Wilde, Goethe, O’ Neill, von Hoffmansthal, Turgheniev, Strindberg, Puschkin.
Nulla di registrato, un copione usato dall’attrice Carla Bizzarri, un suo testo  – Il Cinquecento – diretto da Guglielmo Morandi, cos’altro ci è rimasto di Jacopo Treves? Rispondono due ‘memorie storiche’ della prosa radiofonica.
Franco Malatini: “Lo standard registico di allora era regolare, tranquillo, senza voli di fantasia. Quella che io chiamo la ‘letteratura auditiva’ era in forma elementare. Treves aveva delle stravaganze piacevoli, manifestava questa genialità nell’esercizio della professione, era una rivoluzione della prosa. Ebbe  degli elementi di creatività che si svilupparono negli anni Sessanta.
Lidia Motta, responsabile della prosa di Radiodue Rai fino al 1994, non ha mai conosciuto Treves ma è categorica: “Con il suo stile innovativo aveva tolto dalla banalità il provincialismo radiofonico della prosa di quegli anni.”

 

                                                                                    Pasquale Santoli e Raffaele Vincenti

 


Le testimonianze orali di Umberto Benedetto, Franco Malatini, Simonetta Gomez, Ede Castoldi, Clara Grementieri, Aldo Manetti, Andrea Camilleri, Giuseppe Patroni Griffi, Francesca Minnellono, Sivio Loffredo, Lidia Motta, sono frutto di interviste effettuate nel periodo settembre-ottobre 2002 da Raffaele Vincenti che ha curato anche la ricerca, sui numeri Radiocorriere dell’epoca, degli articoli citati e delle produzioni dirette da Jacopo Treves.
Le ricerche presso l’archivio della Sede Rai di Firenze sono state effettuate con la collaborazione di Osasca Droghetti.

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