Jacopo Treves e il dibattito sul Radioteatro
“La R.A.I. inizierà la sera del 19 marzo una serie di trasmissioni con lo scopo di portare a conoscenza dell’ascoltatore italiano le maggiori opere internazionali concepite radiofonicamente. Il Manifesto è un’iniziativa che non si limiterà a presentare opere di autori che hanno già avuto largo consenso all’estero, ma soprattutto intende suscitare anche in Italia interesse e collaborazione verso un autentico stile radiofonico e chiarire i suoi rapporti con la letteratura drammatica, narrativa e poetica antecedente e seguente l’invenzione della radio. Il Manifesto intende dimostrare la soluzione radiofonica dei problemi e dei metodi espressivi enunciati dai manifesti dell’espressionismo e del surrealismo che informano l’odierna letteratura e l’arte contemporanea. La Radio non ha che due possibilità: ritrasmettere passivamente generi d’arte o d’informazione che perdono attraverso il microfono le loro qualità espressive (ossia trasmettere un teatro cieco e privo del consenso della platea e diffondere notizie e cronache secondo lo stile del giornale stampato), oppure far proprie le secolari esperienze di tutte le forme d’arte a lei preesistenti secondo concezioni e realizzazioni che ne sfruttino le infinite e inesplorate capacità di suggestione e di popolarità“.
Si tratta dell’ incipit di un lungo articolo-
Fin dalle prime righe del suo Manifesto, Treves riprende sostanzialmente i temi centrali intorno ai quali, fin dalla nascita della radio, si è sviluppato in tutta l’Europa il dibattito sul teatro radiofonico come ‘teatro alla radio’, fatto di adattamenti di opere teatrali e trasposizioni di opere letterarie, e come ‘teatro per la radio’, concepito e scritto, cioè, appositamente e esclusivamente per il mezzo radiofonico.
“Conobbi Treves prima di entrare a Radio Firenze, nell’ambiente fiorentino dei giovani intellettuali. Lo ricordo intelligente, colto e pieno di sé. Il suo vero nome Gino, gli sembrava troppo banale per uno che avesse aspirazioni romantiche e poetiche, così adottò quello di Jacopo” –
Rispetto a paesi come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania, ove l’arte radiofonica nasce con la radio stessa e si trasmettono regolarmente radiodrammi fin dai primi anni ’20, in Italia il radioteatro fece la sua comparsa solo il 6 ottobre 1929, cinque anni dopo l’entrata in funzione del servizio radiofonico, come ricorda Paolo Vales nel suo saggio Evoluzione della radiodrammaturgia italiana, pubblicato dalla rivista “Radiodramma” nel numero 7-
Nel periodo a cavallo degli anni ‘30 autori, come Lucio d’Ambra, Alberto Donaudy, Piero Mazzolotti, Gino Rocca, Alessandro De Stefani, Gigi Michelotti, Landro Ambrosini e molti altri, invitati espressamente dall’ E.I.A.R. a dedicarsi anche alla radio, si mostrarono poco sensibili, al pari di Chiarelli, alle problematiche estetiche e espressive richieste dal mezzo radiofonico. Tuttavia già nel 1928 due articoli di Umberto Bernasconi, il primo pubblicato il 25 aprile in “Il Popolo toscano” e il secondo il 28 giugno in “L’Impero d’Italia” testimoniano (stando alla citazione di Enrico Rocca a pag. 226 del suo Panorama dell’Arte radiofonica, pubblicato da Bompiani nel 1938) un’attenzione e un interesse già maturi rispetto al dibattito di natura estetica e espressiva sul teatro radiofonico e in particolare alle teorie di Paul Deharme, discepolo di Gabriel Germinet, il padre del radiodramma francese, che appunto nel 1928 propone le sue dodici regole per liberare il radioteatro dal realismo imperante.
Tre articoli di Arnaldo Ginna, L’Arte della Radiofonia, pubblicato il 23 gennaio 1930 su “l’Impero d’Italia, L’Arte nel Radiodramma, pubblicato in “Oggi e domani” n. 3, 1930 e Variazioni sul Radiodramma, sempre in “Oggi e domani”, n. 4, 1930, anticipano quello che può considerarsi il primo vero manifesto italiano dell’arte radiofonica La radio come forza creatrice di Enzo Ferrieri, pubblicato sul numero del 25 giugno 1931 della rivista “Il Convegno”, diretta dallo stesso Ferrieri all’epoca anche direttore artistico dell’E.I.A.R., nel quale l’autore, come evidenzia Vales (“Radiodramma”, op.cit.) “enuncia, sulla base di precedenti studi francesi, la validità espressiva della radio, difendendo in essa anche il teatro presentato al microfono, non solo il radioteatro e insorge giustamente contro il ‘rumorismo’ ancora imperante e mette in rilievo quei valori che risiedono nell’immutabile forza della parola, ma non esempifica il concetto se non con marginali osservazioni tecniche proprie alla regia più che all’estetica.”
Sempre “Il Convegno” pubblica nel n. 8, agosto 1931, una Inchiesta sulla radio, a cura di Enzo Ferrieri, una raccolta di opinioni sollecitate personalmente dal curatore a un gran numero di uomini di cultura italiani. Rispondono M. Bontempelli, A.G. Bragaglia, P. Buzzi, R. Calsini, A. Carocci, Alberto Casella, Alfredo Casella, E. Cecchi, G. Cesari, G.M. Ciampelli, E. Colorni, E. Conti, L. D’Ambra, S. D’Amico, G. Ferrata, M. Ferrigni, P. Gadda, A. Gerbi, C. Linati, A. Lualdi, F. Malipiero, E, Margadonna, F.T. Marinetti, G. Morpurgo Tagliabue, V. Mortari, U. Notari, G. Piovene, O. Respighi, M. Robertazzi, G. Rocca, N. Savarese, G. Saviotti, A. Toni, g. Tumiati. Secondo lo stesso Ferrieri il dato più importante che emerge da questa inchiesta è l’insperato interesse del mondo culturale italiano per il mondo radiofonico, nonostante lo scetticismo di numerosi interventi.
La cultura ufficiale italiana, tuttavia, a differenza di quella europea, mantiene per tutti gli anni ’30 un atteggiamento di studiato disinteresse per la produzione radiodrammatica, considerata ora come un semplice surrogato del teatro ora come una manifestazione di giovanile avanguardia, e non risponde adeguatamente alle sollecitazioni e alle iniziative intraprese dall’ E.I.A.R. anche attraverso numerosi concorsi per radiodrammi.
La radio, il suo linguaggio e la sua arte destano, al contrario, l’interesse di un gruppo di giovani, sconosciuti all’ambiente teatrale, attirati dalle possibilità espressive del mezzo e desiderosi di occupare un terreno incolto, certamente carichi di energie innovative, ma scarsamente dotati sul piano della elaborazione teorica e estetica. Le teorie dello stesso Manifesto Futurista della Radia di Filippo Tommaso Marinetti, scritto in collaborazione con il poeta Pino Masnata e pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino il 22 settembre 1933, “la Radia non deve essere teatro, cinematografo, libro. La parola è andata sviluppandosi come collaboratrice della mimica facciale e del gesto. Scomparendo nella Radia questa collaborazione, occorre che la parola sia ricaricata in tutta la sua potenza“, ebbe a suo tempo una risonanza piuttosto limitata e i radiodrammi a esse ispirati un seguito poco convincente.
Verso la seconda metà degli anni ’30, comunque, anche la produzione radiofonica italiana è percorsa dai fermenti innovatori di alcuni “giovani sperimentatori”, tra i quali Paolo Vales (“Radiodramma, op. cit.) ricorda, primi fra molti altri, Renato Castellani e Livio Castiglioni, inventori del ‘suonomontaggio’: “ la Radio Italiana è investita da una vivificatrice ventata di sperimentalismo, nascono i piani sonori, i sottofondi, il missaggio, la risonanza, il fonomontaggio, non usati come ripieghi esteriori, ma come mezzi veramente espressivi, inediti e funzionali. Siamo nel 1934 e la via è aperta non solo ad una più provveduta e ambiziosa regia radiofonica dal punto di vista tecnico, ma anche ad una certa quale poetica che non tarderà a dare i suoi frutti, essendo mosse le acque e acuito l’interesse dei giovani.”
Anche il dibattito teorico prosegue, quasi fino allo scoppio della seconda guerra mondiale: nel 1934 sulla rivista “Il Dramma”, anno Xo, n. 198, Massimo Bontempelli con il saggio Radioteatro, pur mettendo in guardia gli autori radiodrammatici dalla tentazione del realismo ammette l’efficacia delle tecniche naturaliste; nel 1937 Ismaele Barulli Ed., Osimo, pubblica Sottopalco, saggi sul teatro, di Anton Giulio Bragaglia, in cui l’autore esprime la sua fiducia nelle possibilità future del radioteatro, ne accetta i valori letterari, ammette l’esistenza di un problema estetico, ma gli nega ogni validità spettacolare (lo definisce ironicamente ‘auditicolo’ ossia ‘spettacolo uditivo’). Non è teatro, dunque, ma ‘spettacolo da catacombe’, sotterraneo, fatto per vivere soltanto nell’animo dell’ascoltatore; infine, nel 1938 esce presso Bompiani l’opera già citata di Enrico Rocca, Panorama dell’arte radiofonica, (è di un anno prima, nel 1937, la pubblicazione presso l’editore Hoepli del saggio di Rudolph Arnheim La radio cerca la sua forma) senza dubbio un testo ancora oggi fondamentale, sia dal punto di vista della sua impostazione teorica che da quello della vasta documentazione, italiana e straniera, per lo studio del fenomeno radiodrammatico. La radio, secondo l’autore, è un nuovo mezzo di comunicazione e di espressione artistica, fondato unicamente sulle capacità recettive e interpretative dell’udito e ha come scopo ultimo quello di suscitare, in chi ascolta, la ‘vista auditiva’, ossia la possibilità di vedere attraverso l’intelletto e la fantasia. Come ogni arte trova nel suo limite una ragione di vita così anche la radio, costretta nella sua compiutezza acustica, può esprimere e suscitare realtà artistiche; essa sarà arte, però, soltanto quando ubbidirà contemporaneamente alle leggi dell’estetica e della tecnica. Tutte le forme, a partire dalla conversazione radiofonica fino alla radiosintesi, si evolvono verso il radioteatro come al genere principe; esso deriva a sua volta, per un processo di invisibile simbiosi, dal teatro scenico; il compromesso tra le due forme è possibile ma, mentre il teatro tradizionale è sintesi analitica, il dramma radiofonico è analisi sintetica.
Con la fine della guerra anche la radio italiana conosce un radicale mutamento, nella forma e nella sostanza; accentua il suo ruolo di promozione culturale; cerca nuove forme espressive e nuovi linguaggi. La vecchia E.I.A.R. si dissolve a partire dal 1943, con il progredire del fronte bellico lungo la penisola, nelle cosiddette ‘Radio Libere’: Radio Cagliari, Radio Catania, Radio Palermo, Radio Bari, Radio Napoli e, salendo sempre più a nord, Radio Firenze (Paolo Vales in “Radiodramma” –
Iacopo Treves, meteora nel mondo della prosa radiofonica, è probabilmente uno dei frutti di questi “vivai sperimentali”.
Jacopo Treves e Radio Firenze – Le testimonianze
“Conobbi Treves prima di entrare a Radio Firenze, nell’ambiente fiorentino dei giovani intellettuali. Lo ricordo intelligente, colto e pieno di sé. Il suo vero nome Gino, gli sembrava troppo banale per uno che avesse aspirazioni romantiche e poetiche, così adottò quello di Jacopo” –
Franco Malatini, che quando era in servizio alla Rai si occupava di prosa, nella sua storia di ‘Cinquant’anni di teatro radiofonico in Italia’ edito dalla Eri, scrive: “Simile a un fiero lottatore rinascimentale, col suo spirito vivo, polemico, dotato insieme di penetrante dialettica e di risoluta concretezza, Treves, superati gli anni duri e dolorosi delle persecuzioni razziali, ricompare subito dopo la liberazione a Radio Firenze“.
Dalla cartella personale custodita nella sede Rai di Firenze, leggiamo: Gino Treves –

“Altissimo, con un collo che non finisce mai, e sopra, una testa piccola. Si può credere che da un momento all’altro il collo seguiti ad uscirgli dal colletto e si snodi all’infinito, specie per insinuarsi a vedere dall’alto che cosa stai facendo. Infatti è curiosissimo. Capelli castani, un po’ radi, che svolazzano in cernecchi trasparenti, occhi vicini, a succhiello, un gran naso, una gran bocca a taglio, rossa, poco mento, una espressione di strano uccello dotto. È Jacopo Treves, regista metafisico. Il pubblico lo conosce per un produttore d’eccezione, gli attori per un pignolo maledetto, gli estranei per un tipo enigmatico e insolente e gli amici per un poeta“.
È parte di un articolo tratto dal numero 5 della rivista Radio del 1945 e la descrizione del personaggio sembra materializzarsi nella caricatura che ne fece Nippia Fucini (qui sopra), pittrice (nipote dello scrittore Renato Fucini) nel 1952. Quella di Treves è la n.23 di 123 disegni che l’autrice raccolse in “Visacci 900” edito da Giorgi e Gambi. Una copia di questa raccolta è in possesso di Simonetta Gomez, moglie di Amerigo Gomez regista a Radio Firenze: “Jacopo Treves, nei primi anni 50, abitava vicino a noi, in Via Scialoia. Era triste, viveva solo e qualche volta veniva a cena da noi. Il suo fisico rispecchiava il suo carattere spigoloso.“
La prosa radiofonica, nella Radio italiana in fase di ricostruzione del dopoguerra, “nuotava” in un dibattito che ebbe origine quando, il giorno 11 marzo 1929, (Radiodramma, rivista di Dante Raiteri, nel numero 7-
Sulla stessa rivista, Paolo Vales aggiungeva: “La Radio Italiana è investita da una vivificatrice ventata di sperimentalismo, nascono i piani sonori, i sottofondi, il missaggio, la risonanza, il fonomontaggio, non usati come ripieghi esteriori, ma come mezzi veramente espressivi, inediti e funzionali. Siamo nel 1934 e la via è aperta non solo ad una più provveduta e ambiziosa regia radiofonica dal punto di vista tecnico, ma anche ad una certa quale poetica che non tarderà a dare i suoi frutti, essendo mosse le acque e acuito l’interesse dei giovani.”
Jacopo Treves, meteora nel mondo della prosa radiofonica, è probabilmente uno di questi frutti. Mentre comincia a ‘firmare’ le sue regie per Radio Firenze, il dibattito sul Radioteatro, dalle pagine del Radiocorriere, continua.
Massimo Bontempelli (Radiocorriere n.5 del 2 dicembre 1945) con l’articolo ‘Radioteatro? No, non ci credo’: “…In definitiva, l’uomo davanti alla radio non differisce molto dall’uomo col libro in mano. Tra l’ascoltare un dramma alla radio e ascoltarlo da un lettore, la sola differenza sta nella diversità delle voci. Così il radiodramma non è che un dramma udito leggere alla radio. Qualcuno mi obietta che non è udito-
Franco Malatini (Radiocorriere n.6 –
Clara Grementieri, andata in pensione quando era Funzionario alla prosa, alla sede Rai di Firenze, ricorda: “Nel 1944 incontravo Jacopo, nella discoteca, che ascoltava la musica per i suoi lavori. Quello che sicuramente per me fu un capolavoro, fu ‘Tamburi lontani’ per la cui sonorizzazione mi fece cercare canti spirituali che fossero senza sottofondo musicale. Poi venne noleggiato un tamburo e un orchestrale venne apposta dal Teatro Comunale per suonarlo. C’era anche un direttore del tamburo che dirigeva l’orchestrale.”
Aldo Manetti, tecnico del suono di quel periodo: “Treves esigeva dagli attori che imparassero a memoria la parte, come a teatro. Diceva che così l’attore avrebbe partecipato con maggior entusiasmo perché non avendo problemi di lettura del copione, avrebbe potuto muovere la testa che per lui era molto importante. ”
Ancora Malatini: “Se una certa aneddottica ce lo mostra stravagante ricercatore di effetti registici, con sistemi non ortodossi (come il far parlare l’attore in posizione supina, gravato di due o tre dizionari posti a compressione dello stomaco), è generalmente accettato il positivo giudizio sulla sua intelligenza, il suo estro, la sua tenacia, potremmo dire caparbietà, nei tentativi di ottenere dagli attori e dalle attrezzature ogni possibile sfumatura espressiva”.
La sua produzione radiofonica, pur in un tempo così breve, è abbastanza intensa. In meno di due anni (1945 –
Dopo la messa in onda di “Casa di bambola”, il 7 agosto 1945, Treves scrive una lettera al Direttore della sede Rai di Firenze, Aldo Angelini, per sottolineare l’alta professionalità degli attori e dei tecnici “in occasione della più lunga trasmissione di prosa di Radio Firenze, (21,15 –
Umberto Benedetto, divenuto poi responsabile della Compagnia di Prosa di Firenze,: “Nel mio compito di regista sono sempre stato per una Radio che dovesse diffondere la cultura, ero per l’immediatezza della comprensione della cultura e non per una radio che avesse una ricerca stilistica tale da far comprendere il suo messaggio dopo 6 mesi. Per Treves invece il teatro radiofonico doveva avere una funzione didattica, educativa“.
A conferma di ciò, sul Radiocorriere n.11 del 16 marzo 1947, compare un articolo-
Treves ‘firmerà’ la prima delle trasmissioni annunciate dal Manifesto, “Avvisi matrimoniali” di Tyrone Guthrie andata in onda il 19 marzo 1947. Sempre dal Radiocorriere, l’ultima traccia delle sue ‘regie’ è “I fiori non devi coglierli” di Tyrone Guthrie andato in onda il 23 maggio 1947.
IL 20 maggio 1946 Treves era stato trasferito alla Rai di Roma. Giuseppe Patroni Griffi, regista teatrale e cinematografico, è l’unica testimonianza del difficile “periodo romano” di Treves. I suoi sono ricordi frammentati, confusi, severi: “Era un uomo molto intelligente, fissato, faticosissimo, insopportabile. Quando arrivava lui, noi scappavamo. In quegli anni mi occupavo della Prosa Rai; lui veniva, proponeva dei lavori, poi spariva. Pensavo che fosse un collaboratore esterno. Era pazzo di Tyrone Guthrie.“ E a proposito della sua tragica fine: “Era destinato a una ‘non vita’.”
Andrea Camilleri: “Lo ricordo alto e magro, sempre con l’ombrello, al Bar Luxor di Roma (oggi Canova) a Piazza del Popolo. Io ero solo un allievo dell’Accademia e lui una personalità di rilievo“.
Ede Castoldi racconta gli anni successivi: “Fra il 1952 e il 1955 frequentavo quasi settimanalmente la Galleria Numero in Via degli Artisti all’altezza della piazzetta Conti. Era un ambiente incredibile, nel quale ci si riuniva con gli amici, si guardava i quadri e si parlava. Quello che mi sono portata dietro tutti questi anni è sempre stata la visione, quando li incontravo nella Galleria, di Fiamma Vigo e Jacopo Treves. Lui era alto, Fiamma più bassa. Lei così fragile, così piccola. In un certo senso poteva sembrare che lui proteggesse lei, viceversa mi hanno sempre dato l’idea che Fiamma proteggesse lui o cercasse di proteggerlo. C’era un che di materno, di molto femminile nel suo modo di guardarlo”.
Francesca Minnellono (pittrice e scultrice) era un’altra frequentatrice di ‘Numero’: “Eravamo un gruppo che si interessava di letteratura e frequentava la Galleria. Jacopo era una persona molto particolare aveva delle frecciate incredibili, parlava per ore poi, improvvisamente, si ammutoliva, lasciava il gruppo e se ne andava. Una volta raccontò che lui e un suo amico, di sera, al mare, erano soliti scavare due fosse dentro le quali rimanevano sdraiati a conversare. Fiamma era una donna che stimava, e lei aveva di lui la medesima considerazione. Pur non condividendo una convivenza, erano sempre insieme“.
Silvio Loffredo, pittore: “Quando Treves veniva dalla Fiamma era il personaggio di punta, portava sempre un po’ di pepe alla conversazione. Le sue conversazioni erano sempre intelligenti, parlava di Kafka, era difficile tenergli testa. Negli ultimi tempi lo vedevo sempre eccitato. Un giorno lo incontrai e lo salutai un po’ frettolosamente. Jacopo mi rimproverò: ‘che fai, fuggi?’. Dopo qualche giorno seppi che si era suicidato e porto sempre con me l’angoscia di quel saluto frettoloso”.
Nulla di registrato, un copione usato dall’attrice Carla Bizzarri, un suo testo –
Franco Malatini: “Lo standard registico di allora era regolare, tranquillo, senza voli di fantasia. Quella che io chiamo la ‘letteratura auditiva’ era in forma elementare. Treves aveva delle stravaganze piacevoli, manifestava questa genialità nell’esercizio della professione, era una rivoluzione della prosa. Ebbe degli elementi di creatività che si svilupparono negli anni Sessanta.”
Lidia Motta, responsabile della prosa di Radiodue Rai fino al 1994, non ha mai conosciuto Treves ma è categorica: “Con il suo stile innovativo aveva tolto dalla banalità il provincialismo radiofonico della prosa di quegli anni.“
Le testimonianze orali di Umberto Benedetto, Franco Malatini, Simonetta Gomez, Ede Castoldi, Clara Grementieri, Aldo Manetti, Andrea Camilleri, Giuseppe Patroni Griffi, Francesca Minnellono, Sivio Loffredo, Lidia Motta, sono frutto di interviste effettuate nel periodo settembre-
Le ricerche presso l’archivio della Sede Rai di Firenze sono state effettuate con la collaborazione di Osasca Droghetti.